Ciao Gerry, è un piacere poter parlare con te. Per iniziare questa nostra chiacchierata ti andrebbe di raccontarci del tuo background e dei tuoi studi. Perché hai scelto di dedicarti alla sostenibilità digitale?
Lavoro per il web più o meno dall’arrivo di internet sulle scene mondiali, prima mi sono occupato di giornalismo: questo è stato sicuramente il mio punto di partenza. Durante la prima metà degli anni ’90 tutto era orientato fondamentalmente allo sviluppo di siti web, anche se una buona parte del mio lavoro ha coinvolto anche la produzione di contenuti per il pubblico.
Ho scritto molto nel corso degli anni e pubblicato libri, principalmente riguardo quello che era il web e le sue trasformazioni, il consumo dati, e la produzione di contenuti.
Lavorando in questo settore e realizzando siti web per realtà e aziende sin dall’avvento di internet non ho notato subito i rischi connessi all’uso non responsabile del digitale; era evidente però, che molto di quanto veniva fatto finiva per non essere utilizzato: erano tantissime le pagine progettate e mai effettivamente visitate, in qualche modo abbandonate.
Sono stato sempre consapevole di come esistesse alla base una problematica di strutture troppo pesanti e complesse, ma non mi era ancora chiaro il collegamento con le tematiche ambientali; ero ancora convinto che le trasformazioni messe in atto dal digitale fossero una vera risorsa per l’ambiente. Solamente nel corso degli anni, portando avanti ricerche per il mio lavoro di scrittore, mi sono ritrovato coinvolto nel movimento della sostenibilità digitale.
È cominciato così questo percorso: ho realizzato che spesso il digitale è un acceleratore invisibile che opera in un modo sottile, che difficilmente percepiamo, amplificando quelli che si possono considerare comportamenti negativi da parte dalla società.
Sono arrivato al punto di affermare che non ci sarebbe il grave problema del cambiamento climatico che viviamo nei nostri giorni, se non avessimo avuto accesso massiccio alla tecnologia, come invece è successo. Realizzare che questa “entità” che ci sembrava così rivoluzionaria e benefica fosse alla fine, in modo molto evidente, una delle principali cause di rischio per l’ambiente è stata una presa di coscienza graduale.
Volevo parlarti proprio di uno dei tuoi libri “World Wide Waste”, che ritengo una delle fonti più interessanti dedicata all’argomento. Puoi raccontarci la genesi del libro e perché hai deciso di scriverlo?
Al momento dell’incubazione del libro – parliamo di dieci o quindici anni fa – il mio obiettivo era di scrivere per migliorare il lavoro del settore digitale, per offrire spunto e ispirazione avendo in mente le nuove generazioni, al di là dei temi legati al cambiamento climatico, che nella mia mente di allora non era ancora una problematica così definita.
È stato facendo ricerca per la scrittura del libro che il quadro dell’impatto del digitale sull’ambiente è diventato sempre più chiaro, penso ad esempio ai data centers – che mai avevo considerato in senso negativo, ma anzi sempre valutato come una grande possibilità di sviluppo e progresso – e a tutto ciò che il loro funzionamento richiede in termini di energia, insieme al consumo d’acqua, al duro impatto sull’ambiente, nonché alla difficile gestione dei dati.
Un altro mio spunto di riflessione si ricollega poi all’impatto dei devices che utilizziamo, all’obsolescenza, a come siano effettivamente progettati per rendere praticamente impossibile una completa riparazione, insieme alla problematica dello smaltimento delle varie parti che li compongono. Oggetti complessi che vengano gettati via con troppa facilità, finendo per diventare materiale di scarto da smaltire e un problema sempre più gravoso.
La dematerializzazione è forse il nostro nemico più grande, perché ci ha improvvisamente reso inconsapevoli dell’aspetto materiale delle nostre azioni. Un nemico che non è percepibile, come un fantasma.
Con l’arrivo dei sistemi Cloud, musica, foto, dati, tutto quello che circolava nei devices digitali e che era sempre stato sotto i nostri occhi o quanto meno calcolabile in termini di spazio di archiviazione (qualcosa che ci rendeva estremamente consapevoli perché spesso lo spazio di archiviazione di cui disponevamo era davvero ridotto), è sembrato diventare invisibile; ci è stato tolto quel senso di comprensione del “valore di ogni azione digitale”: non riusciamo più a tenere traccia della quantità dei dati che effettivamente produciamo, e ne produciamo una quantità sempre maggiore.
Arrivati a questo punto vorrei chiederti: qual è la tua definizione di sostenibilità digitale?
Direi sicuramente: “progettare per ottenere ottimi prodotti digitali che abbiano il mimino impatto sulle risorse ambientali. Prodotti digitali non solo validi ma che abbiano un’utilità tale da considerarsi necessari, per giustificare il costo ambientale che richiedono, che siano duraturi nel tempo e che possano essere riparati”.
Larga parte del lavoro che svolgo tratta di “Architettura delle informazioni”, cerco di spiegare alle persone come progettare architetture, pensandole come un qualcosa che deve idealmente essere in grado di funzionare correttamente per almeno venti anni. Questo perché secondo il mio pensiero, i bisogni dell’utenza finale – il suo modo di approcciarsi ai prodotti e le sue necessità – non sono effettivamente cambiati nel corso del tempo, e difficilmente lo faranno. Un buon prodotto, pensato per durare, può davvero assolvere alla sua funzione per molti anni.
Serve progettare strumenti che siano utili, di cui si sente il reale il bisogno, che incontrino delle necessità effettive o risolvano problemi importanti, comuni a larga parte della società. Ecco di cosa parlo.
La Francia sta lavorando da molti anni per la sostenibilità digitale, con un approccio sicuramente diverso rispetto a quello nord-europeo o statunitense. Qual è la tua opinione circa lo scenario francese?
Sento moltissimi racconti positivi circa quello che sta succedendo in Francia, di come il governo francese si stia interessando di sostenibilità digitale e degli ottimi risultati raggiunti.
Credo che la Francia abbia fatto decisamente molti più passi in avanti rispetto a tante altre nazioni, che ci sia una maggiore consapevolezza dell’importanza di questi temi e di quanto sia fondamentale intervenire il prima possibile.
Il loro approccio olistico unito a conoscenze approfondite circa la materia – non dimentichiamo che si occupano di sostenibilità già da almeno quindici anni – oltre a un’economia in parte già low carbon, ha permesso loro di risolvere molte problematiche e di mettere in atto miglioramenti davvero significativi.
Un’ultima domanda prima di salutarci. Cosa pensi accadrà nei prossimi anni?
Siamo sicuramente arrivati a un punto di svolta, ho questa percezione: la consapevolezza della criticità del momento che stiamo vivendo. Credo che vedremo molti progressi e in tanti settori diversi, quindi sono sicuro che una parte di questi interventi verrà fatta e portata avanti anche all’interno del settore digitale.
Per quanto mi riguarda uno dei peggiori aspetti del digitale è il modo in cui riesce ad accelerare ogni fenomeno o espressione della nostra società, un impatto negativo che possiamo definire indiretto: potremmo fare l’esempio di e-commerce e fast fashion, che spingono ad abitudini d’acquisto discutibili. Acquistiamo in modo rapido e poco accurato anche oggetti di cui non abbiamo un reale bisogno, spesso qualitativamente poco validi e che ovviamente non riescono a durare nel tempo, cosa che causa l’aumento sistematico di scarti e sprechi.
La domanda da porsi sarebbe: in che modo le aziende possono effettivamente fare fronte agli aspetti negativi del digitale e annullarli, rallentando e ricalibrando le abitudini d’acquisto e allo stesso tempo riuscendo a funzionare anche economicamente? In un mondo a DNA digitale che corre velocissimo come possiamo sviluppare una cultura basata sullo Slow Design e lo Slow Digital?
Credo che questa sarà la sfida che ci aspetta. Come riuscire tornare a dare il giusto valore a ciò che acquistiamo, ponderando, scegliendo, al di là di tutto il marketing che ogni giorno ci passa davanti agli occhi attraverso le principali piattaforme social.
Cambiare questo approccio, o cultura, che si è ormai radicata è una sfida che dobbiamo cercare di vincere.