Questo articolo è il secondo di una serie di post pubblicati da Gauthier Roussilhe e che prendono in esame diversi aspetti legati al tema della sostenibilità digitale.
Questo il corretto ordine di lettura:
- Paradossi e sfide ambientali della digitalizzazione
- I limiti del dibattito sulla digitalizzazione
- Sostenibilità digitale, la nebbia che verrà
- Territorializzare i sistemi digitali, l’esempio dei Data Center
I limiti del dibattito sulla digitalizzazione
Gauthier Roussilhe, 23 luglio 2020
Interessarsi attivamente all’analisi dell’impatto ambientale del digitale significa prendere in esame i diversi attori che operano in questo settore, un processo che porta inevitabilmente a porsi domande piuttosto complesse.
Pur non trovando i problemi con i quali ci si confronta e i diversi punti di vista che emergono dall’analisi del mondo digitale di una complessità tale da rendere troppo difficile lo sviluppo di un dibattito aperto e lineare, vorrei tuttavia elencare alcuni limiti “ingombranti” che ho incontrato nel corso degli anni, anche se non sono né nuovi né fuori dall’ordinario.
In questo articolo parleremo di:
- Problemi di approccio
- La corretta definizione del digitale
- La sopravvalutazione della digitalizzazione
- La fagocitazione degli usi non digitali a causa del digitale
- La sopravvalutazione dei dati digitalizzati
- Il regime di eccezionalità di cui gode il settore digitale
Problemi di approccio
Uno dei primi elementi che rende complicato l’approccio all’analisi del funzionamento del mondo digitale è che molti dei professionisti che lavorano in questo settore tendono a portare avanti il loro operato e a trasmettere le loro conoscenze in un modo che non è approcciabile da tutti.
Questo problema infatti, è legato al presupporre che la conoscenza informatica implichi di default una “cultura scientifica”, quando per “cultura scientifica” intendiamo invece un termine ombrello molto articolato e complesso, una definizione usata per riferirsi contemporaneamente e più concetti allo stesso tempo: metodi standardizzati di sperimentazione, peer review, lo stato delle proprie conoscenze, e ricorrenti aggiornamenti riguardo la propria professione.
Allo stesso modo, ogni disciplina ha le proprie metodologie e modi di fare ricerca: per proporre un esempio pratico, fare ricerca in antropologia non implica il possesso della stessa cultura scientifica che serve per fare ricerca in fisica teorica.
Insomma, possedere una certa capacità logica acquisita imparando a programmare non garantisce in alcun modo una cultura scientifica. Avere competenze informatiche non significa che si abbiano automaticamente anche conoscenze di “scienze ambientali”, e interessarsi all’impatto ecologico del settore digitale vuol dire proprio impiegare metodi e standard specifici delle scienze ambientali, che richiedono un certo grado di esperienza per essere utilizzati correttamente.
Quando ci dedichiamo ad analizzare il digitale dal punto di vista ambientale e ci chiediamo quanto il nostro oggetto in analisi sia sostenibile, dobbiamo necessariamente definire in relazione a cosa. In questo caso, il “cosa”, designa le capacità del nostro pianeta di superare i danni legati alle attività umane e nonostante ciò di mantenere in uno stato di equilibrio adatto alla nostra sopravvivenza.
Parliamo quindi di un bersaglio mobile, perché siamo ancora in fase di comprensione e di analisi dell’impatto ambientale, nonché degli effetti negativi delle attività umane.
Inoltre, questo campo di ricerca prevede prendere in esame il funzionamento dei sistemi digitali dal punto di vista di consumo di risorse naturali, inquinamento, e molto altro e di norma queste materie sono generalmente al di fuori dell’apprendimento ricevuto in informatica: bisogna sempre ricordare quindi che sia sugli oggetti di studio sia che sui media di riferimento, avere conoscenze informatiche non assolve l’apprendimento nelle scienze ambientali.
La corretta definizione del digitale
Dal punto di vista materiale, il progetto di digitalizzazione realizzato in Europa e in Stati Uniti non è molto diverso da quello asiatico: aumento dei flussi di dati, aumento della potenza di calcolo e della connettività (larghezza di banda e latenza delle reti fisse e mobili).
Si presuppone quindi che questi aumenti possano permettere uno sviluppo positivo per la società, una grande spinta verso il progresso e l’emancipazione: l’emergere di una sorta di mondo digitale umanistico.
Questa narrazione è sostenuta dai principali attori digitali (GAFAM, BATU, ecc.), da varie realtà industriali ed economiche, e dagli Stati con cui collaborano economicamente. Tuttavia è difficile credere che la potenza di calcolo e la connettività siano e saranno equamente distribuiti in tutto il mondo.
I regimi autoritari – e talvolta democratici – hanno fatto e faranno ricorso a restrizioni di connettività, i data center sono lungi dall’essere distribuiti uniformemente in tutto il mondo e gli attori privati possono modificare completamente – o forzare – le condizioni di accesso alla rete. Con il pretesto di un’equa distribuzione della capacità di connessione, il dispiegamento di reti satellitari in orbita bassa pone proprio le basi per quest’ultimo punto.
Sarebbe ingenuo credere che il progetto di digitalizzazione e il suo avanzare contengano in sé un nucleo di emancipazione; ci sono stati e ci saranno ecosistemi digitali di controllo per regimi autoritari e democratici, lontani da tale prospettiva. Ci sono stati e ci saranno ecosistemi digitali di “classe” che aggraveranno le disparità socio-economiche e l’accesso ai servizi sia pubblici che privati. Esistono ed esisteranno ecosistemi digitali comunitari distribuiti per gestire collettivamente le infrastrutture e l’accesso alle informazioni.
Quello che era l’ecosistema digitale degli anni ’90 in Europa non assomiglia affatto al mondo digitale che abbiamo davanti ai nostri occhi oggi. Questa è la difficoltà: tutti parlano di “digitale” mentre si dovrebbe parlare al plurale, riconoscere l’esistenza e la copresenza di diversi “ecosistemi digitali”, di conseguenza discutere di “digitale” ha poco senso se non abbiamo definito di che tipo di “digitale” stiamo parlando.
In Francia, gli attori che si occupano di ricerca per il digitale (Renater, ecc.) hanno poco a che vedere con l’ecosistema di un GAFAM, quindi non trovo motivazioni sufficienti per equipararli.
Finché non avremo pluralizzato il termine “digitale”, sarà davvero difficile portare avanti un dibattito concreto riguardo l’impatto delle infrastrutture e di questi servizi sulla nostra società.
La sopravvalutazione della digitalizzazione
Un punto importantissimo su cui ragionare è la sopravvalutazione della digitalizzazione.
I nuovi sistemi e usi digitali ci hanno regalato la percezione di un’apparente praticità che ci fa dubitare della nostra capacità di realizzare qualsiasi cosa senza il loro utilizzo; è proprio questo fattore di sopravvalutazione che a volte ci fa dire: “non so come facevano prima”. A mio avviso, questo tipo di affermazione riflette piuttosto una mancanza di consapevolezza e un’opacizzazione di quelli che erano i sistemi antecedenti l’arrivo del digitale.
Durante il primo lockdown abbiamo spesso evidenziato la necessaria utilità degli strumenti digitali per continuare a lavorare e imparare a distanza: avremmo potuto organizzare la formazione a distanza senza la digitalizzazione globalizzata? Sono certo che ci saremmo riusciti, anche se probabilmente in modo diverso. Il CNED, ad esempio, fornisce istruzione a distanza dal 1939 e questa organizzazione è stata creata per affrontare le disfunzioni educative legate alla seconda guerra mondiale. Ironia della sorte, il CNED ha sperimentato un fallimento dei suoi servizi digitali legato a un sottodimensionamento dei suoi server.
Esaminando un altro caso, quello del riscaldamento globale, gli strumenti digitali sono sempre così fondamentali? No, nella linea di Eugene Huzar, Svante Arrhenius pubblicò la sua teoria dell’effetto serra nel 1896 dopo aver osservato la luna nell’infrarosso.
Questi esempi potrebbero portarmi ad affermare un apprezzamento per il mondo pre-digitale o che un mondo senza digitale sia una soluzione preferibile, ma non è così: i sistemi digitali esistono, che ci piaccia o meno. Quello che sto cercando dimostrare qui è che c’è molto che possiamo fare e che abbiamo fatto senza utilizzare il digitale, si tratta solo di fare un piccolo sforzo di memoria e ricordare.
Senza la digitalizzazione non ridimensioniamo il campo delle possibilità, semplicemente lo reindirizziamo.
La digitalizzazione di un servizio o di un’operazione che ci è utile ne altera l’essenza: una lezione a distanza ha poco a che fare con una lezione in presenza. Entrambi i casi d’uso, però, presentano vantaggi e svantaggi che si esprimono in modo diverso a seconda del contesto applicativo.
Si tratta quindi principalmente di fissare un obiettivo (la qualità dell’insegnamento), un pubblico e le sue caratteristiche, vincoli immediati, un orientamento strategico e un campo di possibili risposte, per definire quale tra i due diversi modi di fare (non digitalizzato e digitalizzato) sia preferibile.
La fagocitazione degli usi non digitali a causa del digitale
Per approfondire ancora, il mio punto di vista è che la sopravvalutazione della digitalizzazione finisca per farci scontrare con un fenomeno altrettanto complesso: la fagocitazione degli usi non digitali.
La digitalizzazione ha questa incredibile capacità di scontrarsi con gli usi non digitali al punto da annientarli e rendere obsoleta anche la semplice idea della loro esistenza, facendoli di fatto scomparire: questo fenomeno non è solo dovuto alla digitalizzazione, ma dipende in parte anche delle dinamiche che ne sono alla base.
Ad esempio, come parte della politica di riduzione dei costi di uno stato neoliberista, la digitalizzazione può fungere da leva per eliminare i servizi pubblici fisici nelle aree rurali o periurbane, con il pretesto del mantenimento di un uso o una funzione grazie al suo equivalente digitale.
Ad oggi, a mio avviso, poca attenzione è stata dedicata a come la digitalizzazione stia cambiando gli usi non digitali o abbia creato la “necessità” dell’uso digitale nel singolo, anche in situazioni non necessarie.
Per spingere fino all’assurdo il ragionamento sulla fagocitazione degli usi a causa del digitale si potrebbe facilmente immaginare come il giorno in cui si utilizzeranno principalmente smartphone con navigazione GPS e copertura stabile, la segnaletica pubblica (segnaletica, segnaletica stradale, indicazioni stradali) potrebbe essere rimossa e scomparire. Pertanto, qualsiasi orientamento nello spazio dipenderà da un insieme complesso di software, server, fibre e antenne, che escono dalla sfera pubblica e il cui fallimento avrebbe conseguenze ben maggiori rispetto a oggi.
Questo esempio assolutamente estremo ci permette di spingere un po’ oltre i limiti del ragionamento attuale per poterci porre una domanda essenziale: per quali ragioni e quando sarebbe necessario adoperarsi per prevenire la fagocitazione degli usi non digitali mediante la digitalizzazione?
Inoltre è importante ricordare che lo Stato non è un attore digitale a tutti gli effetti (come editore di software, o fornitore di soluzioni o infrastrutture) e che un fenomeno di digitalizzazione porta generalmente a un trasferimento parziale della proprietà pubblica a quella privata.
La segnaletica pubblica ad esempio è in parte responsabilità degli attori pubblici (comunità, squadre di manutenzione, ecc.), i sistemi di navigazione digitale (app, software, ecc.) tendono complessivamente alla privatizzazione dei mezzi necessari per l’orientamento negli spazi in città (tranne nel caso di OpenStreetMaps).
La sopravvalutazione dei dati digitalizzati
La digitalizzazione sembra avere un potente fascino anche su molti attori politici, grazie a qualcosa che ho notato solo di recente: in gran parte ispirati dalla teoria dell’informazione di Shannon, alcuni attori della sfera pubblica sono stati influenzati dall’idea che più dati portino a decisioni politiche migliori.
Eppure questo comporta il trascurare il modo in cui i dati vengono ricevuti, gli strumenti e gli attori che li producono, la loro interpretazione, e molti altri temi delicatissimi.
La gestione della crisi sanitaria mostra chiaramente il vicolo cieco di questo tipo di interpretazione che è troppo riduttiva: ogni governo ha messo in campo strategie ampiamente diverse, specifiche per le condizioni del proprio territorio, ma anche legate all’interpretazione dei dati e alla capacità di alcuni attori di difendere i propri interessi meglio di altri. La produzione di una quantità maggiore di dati non è garanzia di miglioramenti e certamente non garantisce decisioni politiche coerenti con l’interesse collettivo.
Il regime di eccezionalità di cui gode il settore digitale
Ultimo punto da sottolineare è la necessità di capire meglio come si costruisce il “regime di eccezionalità” del settore digitale. Questo regime va ben oltre le questioni ambientali e si basa anche su fattori politici, economici, sociali e territoriali. La forza di questa eccezionalità oggi è un importante un elemento di blocco all’emergere di qualsiasi dibattito sullo sviluppo del settore digitale e sulla possibilità di altri digitali.
Bisognerà però ricordare un giorno che il settore digitale è un settore come un altro e che non potrà vincere per sempre gran parte degli arbitrati. Tanto più che gli arbitrati vinti vanno soprattutto a favore dei giocatori americani, soprattutto in Francia. Si tratta infatti di una doppia sanzione, climatica e geopolitica.
Articolo originale: Gauthier Roussilhe | Les limites pour débattre de numérisation