Ciao Pietro, per prima cosa grazie per essere qui con noi oggi!
È un piacere poter parlare insieme a te di sostenibilità e sostenibilità digitale.
Iniziamo con le domande, ti va di raccontarci qual è il tuo background?
Certamente! Dunque mi sono laureato dopo il liceo scientifico al Politecnico di Torino nel 1980 in Ingegneria Civile con specializzazione geotecnica: dopo la laurea ho lavorato mentre portavo avanti il dottorato di ricerca proprio in Ingegneria Geotecnica.
Il mio primissimo lavoro in quanto geotecnico è stato quello di analizzare la stabilità dei depositi di armi nucleari in Sardegna, di cui possiamo parlare oggi considerato il fatto che questi stabilimenti sono ormai stati dismessi. Ho poi lavorato prima sullo sviluppo e poi sulla chiusura delle miniere di sali potassici in Sicilia, di piombo e zinco in Sardegna, oltre che in diverse altre situazioni di scavi sotterranei come il completamento del traforo del Frejus.
A parte i lavori speciali, in quegli anni quando si costruivano infrastrutture si cominciava a porsi il problema dell’impatto ambientale dovuto alla loro costruzione.
Ho partecipato a diversi progetti, ad esempio i lavori per l’autostrada che va a Verbania, la A26, e ho preparato due progetti per la metropolitana di Torino (non ancora realizzati).
Cosa ti ha spinto a interessarti e poi a dedicarti alla sostenibilità?
Per prima cosa, come dicevo poco fa, in quegli anni si iniziava a pensare alle difficoltà dovute all’impatto ambientale di costruzioni e infrastrutture: gli ingegneri geotecnici venivano coinvolti con geologi e altri per verificare cosa stava accadendo nel sottosuolo dal punto di vista dell’impatto ambientale.
Ad esempio posso raccontarti dei primi episodi di inquinamento da atrazina nel vercellese che iniziavano a essere un problema, oppure possiamo ancora ricordare la tragedia di Seveso avvenuta nel 1976 e che ha richiesto la copertura di un intero paese con metri e metri di terra.
Molto spesso laddove si riscontravano problemi di inquinamento questi si incastravano con questioni di movimento terra, scavi, riporti, e altre problematiche propriamente geotecniche, come i cedimenti dei rilevati.
In questo specifico punto della mia vita, insieme ad altri colleghi, ho iniziato a dedicarmi a quella che si poteva definire come il campo dell’ingegneria ambientale.
Un altro lavoro che mi ha spinto verso questioni di sostenibilità ambientale è stato quello della valutazione della stabilità dei murazzi a Venezia: si controllava l’impatto del Mose di Venezia analizzando il dislivello di acqua tra il fuori e il dentro della laguna – l’acqua tende a filtrare all’interno sotto le lingue di terra che esercitano la funzione di diga naturale. Un altro lavoro prestigioso e sempre di fatto “ambientale” è stato la quantificazione delle infiltrazioni all’interno del tunnel del canale della Manica.
Ho avuto la fortuna, insomma, di poter lavorare a molti problemi difficili e di avanguardia, e questo direi che mi ha definito come professionista ma soprattutto dal punto di vista personale: occuparsi di problemi non di routine, che richiedono nuovi approcci, soluzioni sconosciute.
Cosa ti ha portato a occuparti anche del campo della sostenibilità digitale?
Quel che mi interessa come essere umano è proprio l’occuparmi di problemi che ancora non hanno una soluzione, problemi indefiniti o emergenti, nuovi.
Infatti ho lasciato abbastanza presto i lavori dedicati al sottosuolo dopo circa dieci anni, perché ormai si consolidavano le procedure per il calcolo, il monitoraggio e così via, e mi sono buttato con entusiasmo sui problemi di inquinamento, dove si dovevano ancora inquadrare i concetti, i principi, i modelli di riferimento, prima ancora di scrivere formule e fare calcoli.
Parlando di inquinamento, la difficoltà maggiore è proprio capire quanto ce n’è, cosa c’è, quanto ci può costare, che tempi possono essere impiegati per trovare una soluzione.
Faccio un piccolo esempio: a fine anni ’90 si dovevano rendere affidabili i tempi per la costruzione di tratte importanti dell’alta velocità, quali la Torino – Milano e la Milano – Bologna.
Trent’anni prima si sarebbe potuto progettare occupandosi solo dei problemi tecnici e basta: negli anni ’90 si iniziava invece a discutere di cosa fare poi dei rifiuti derivati dai lavori, e/o del materiale che veniva scavato, intercettato durante la costruzione.
Anche qui emergevano i problemi ambientali e sociali, le persone non volevano più saperne di avere discariche vicino alle loro case, e con una certa ragione: spesso queste discariche rilasciavano nell’ambiente polveri, liquami, e altre sostanze dannose per la salute.
Quando mi sono occupato di lavorare alla tratta Torino – Milano mi è stato chiesto qual era il costo per bonificare i terreni dai problemi che sarebbero emersi durante i lavori e come poter garantire alle Ferrovie dello Stato la consegna dell’opera conclusa entro una certa data.
Bene, se mentre scavi o costruisci incontri un imprevisto per prima cosa si fermano i cantieri e in seconda battuta comincia un contenzioso tecnico – legale che è una rovina per tutti; soprattutto in caso di questioni ambientali, nuove e spinose, cariche di significati simbolici e psicologici, spesso si perdono anni.
In questo specifico esempio di cui sto parlando, l’obiettivo era concludere entro il 2006 per le Olimpiadi di Torino. Per definire tempistiche e costi abbiamo risolto il problema mettendo in piedi, sulla base dell’esperienza, una procedura probabilistica. Abbiamo calcolato che in quella linea c’erano almeno un centinaio di siti contaminati, e valutato con sistemi avanzati – non usati da altri prima – probabilità di occorrenza, probabilità di quantità, di costi unitari, di costi e tempi globali. Abbiamo calcolato che i problemi si sarebbero risolti con una probabilità maggiore del 95% entro X mesi e Y milioni di euro.
Negli anni ’90 ho avuto il piacere di iniziare a lavorare a livello internazionale e costruire delle società di ingegneria, basate sulla proprietà comune – una specie di cooperativa – e diventare responsabile e ideatore di alcune decine di società in tutto il mondo (dalla Turchia alla Norvegia, dalla Finlandia al Portogallo) aiutando la società della quale ero azionista a crescere fino a raggiungere le 18.000 persone.
Dopo diciotto anni che ero all’interno del consiglio di amministrazione mondiale di questa società, avendo visto tante piccole realtà trasformarsi in multinazionali, con tutta la fatica organizzativa ed economica richiesta, ho scelto di fare un passo indietro.
Lasciata questa società nel 2015 ho iniziato a dedicarmi ai problemi ambientali, sociali e tecnici del digitale, di cui sono stato utente, acquirente, manager di sistemi per gestire persone, aziende, progetti.
Ora una domanda per noi importantissima, cosa significa per te sostenibilità digitale?
Bene, sin dagli anni ’80 ho seguito l’evoluzione del digitale, che consideravo interessantissima, con un occhio critico.
In quegli anni programmavo e raccoglievo dati per il mio lavoro: per esempio posso raccontarti di come controllavamo i movimenti di un pendio durante la costruzione di una galleria che dal ponte Morandi portava all’aeroporto di Genova: con uno strumento in un foro, ogni metro un numero, il numero telefonato con uno dei primi telefoni portatili a Torino, il collega a Torino elaborava, e mi dava in tempo reale il risultato.
Intorno avevamo abitazioni e costruzioni (molto spesso trovavamo ovviamente anche problemi archeologici): in quel caso controllavamo di quanto si spostava questo pendio, aiutati dal digitale per la parte di analisi dei dati riscontrati sul territorio. Il digitale mi aiutava a selezionare i dati e ad arrivare a delle risposte.
Portando questo discorso ai giorni nostri, per monitorare oggi l’uso di un sito web dobbiamo prima domandarci come si comporta, cosa accade quando viene visitato dagli utenti.
Da questa mia esperienza posso dire che il digitale è uno strumento meraviglioso, ma solo se lo sai tenere in mano e gestire.
Google Analytics ad esempio, ti fornisce un’enorme quantità di dati ma se non si conosce matematica e statistica, e non si riesce a ottenere un modello concettuale, la nostra attività su questo strumento non servirà a nulla se non ad arricchire Google.
Io preferisco non avere un dato se questo dato è sbagliato o non ne conosco davvero l’affidabilità.
Il digitale che era una novità, uno strumento per tecnici negli anni ’80 e ’90 è diventato poi uno strumento di gestione aziendale e, oggi, ha finito per raggiungere praticamente ognuno di noi nelle nostre vite quotidiane, e da strumento di lavoro è diventato anche strumento di intrattenimento, seduzione, ozio, oblio.
Vorrei parlare di qualcosa che è molto importante e cioè la gestione dei “numeri” da parte del digitale: gli analytics e il digitale si possono usare nel modo migliore solo controllandoli e dominandoli.
Il digitale che prima aveva altri scopi e utilizzi, arriva oggi nella tasca di tutti noi con smartphone e altre tecnologie; circa 20 anni fa il web diventa anche uno spazio commerciale: attraverso il web si compra l’attenzione di tutte le persone che sono sulla faccia della terra.
In contemporanea si è sviluppato il fenomeno della globalizzazione, con enormi possibilità offerte: sembrava che il mondo fosse diventato più libero e pacificato. Per la prima volta nella storia le nuove tecnologie sono state testate prima in campo civile e poi in quello militare, quando in altri tempi il progresso è sempre stato figlio dell’attività bellica e poi utilizzate ovunque.
Negli ultimi 20 anni, forse anche a causa di una prolungatissima pace mondiale, sembra essere diventato il contrario.
Si sta andando verso la concentrazione di quelli che sostanzialmente sono monopoli privati che producono e investono in ricerca: oggi Bill Gates risulta più importante del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti. Non so dove tutto questo ci porterà ma va riportato come nuovo fenomeno che esiste e di cui forse dobbiamo ancora capire pienamente le dinamiche.
Il digitale è diventato parte del nostro lavoro: ha fatto cose straordinarie laddove è stato controllato e disastri incredibili quando non è stato gestito con consapevolezza. Per controllo non intendo solo quello delle leggi ma anche il controllo di un uso consapevole da parte della collettività.
Ecco perché oggi mi occupo di digitale, perché lo ritengo una nuova frontiere che richiede l’intervento di tecnici che hanno una visione di insieme del mondo.
Sostenibilità digitale per me significa sostenibilità economica, sociale ed energetica.
Rimanendo su questo discorso, cosa ti ha portato a Sloweb?
Sono ottimista, mi occupo di sostenibilità digitale perché mi sono sempre occupato delle cose nuove e perché è importantissimo per il nostro futuro.
Nel campo di società petrolifere e minerarie le ho viste cambiare in meglio, ho visto nascere un’industria più sostenibile, dove la sostenibilità ambientale e sociale significa anche, e non può essere diverso, sostenibilità economica.
Le vere aziende sostenibili sono quelle che a volte hanno una storicità di vita che raggiunge i 100 anni e anche più, fondate sul principio di moderazione, della prudenza: sostenibilità e moderazione significano crescere con giudizio.
La sostenibilità per me continua a essere qualche cosa che guarda alle generazioni future e che quindi ti invita a decidere cosa fai oggi pensando a di cosa avrai bisogno domani.
Ad esempio, se produco siti web oppure App che riducono la capacità di ragionare devo stare molto attento perché quello che otterremo saranno persone non in grado di ragionare.
I bambini devono potersi scontrare con difficoltà e imparare a superale da soli per crescere e migliorarsi secondo i giusti tempi: accelerare artificialmente queste tappe rompe un ciclo di sviluppo che invece dovrebbe passare attraverso una moderata crescita basata sulle loro forze.
Nel digitale è la stessa cosa, molto di quello che utilizziamo quotidianamente ci ha abituato a scorciatoie che hanno finito per ridurre la sicurezza in noi stessi.
Così come un uso sregolato del digitale ci può portare verso una riduzione delle nostre capacità di attenzione e comprensione, e ridurre la tolleranza alla sofferenza. Questo è rischioso, perché va nella direzione opposta al diventare più resilienti.
La parola d’ordine dovrebbe essere ridistribuzione: anche nel digitale dobbiamo operare per redistribuire l’accesso a questa risorsa guardando all’impatto economico, sociale e ambientale.